21/03/2012 Cooperare non serve solo alla pace

di gigasweb

Fonte: L'imprenditore

Andrea Riccardi è un accademico – ordinario di storia contemporanea all'università di Roma Tre – uno storico della Chiesa moderna e contemporanea e il fondatore, nel 1968, della Comunità di Sant'Egidio. Uno studioso prestato alla politica.

Dallo scorso novembre, infatti, è uno dei Ministri del governo Monti con la responsabilità di un dicastero che prima non c'era: quello per la Cooperazione internazionale e l'integrazione. Un terreno nuovo, nel quale però Riccardi si muove con competenza da anni.

Lo abbiamo incontrato per capire come è possibile agire in un contesto così difficile, tra la paura del "diverso" e la necessità di portare a compimento un vero percorso di integrazione tra i popoli.

Qual è il ruolo della cooperazione internazionale nella politica estera di un paese?

La cooperazione è uno degli elementi principali che definisce la credibilità di un paese a livello internazionale. Ma è anche un fattore decisivo della politica estera. Attraverso la cooperazione, infatti, si incide nelle dinamiche della globalizzazione: si rafforzano legami e amicizie, si produce sicurezza, si creano opportunità economiche, si gettano le condizioni per la pace. Da noi, in Italia, da molti anni è stato sottovalutato il valore aggiunto che la cooperazione porta con sé. C'è allora un trend da invertire con creatività e innovazione. C'è una cultura della cooperazione da rilanciare e ripensare.

La non-cooperazione italiana ha dei costi. I nostri rappresentanti nei consessi internazionali si sentono spesso rimproverare per il mancato rispetto degli impegni presi. In molte zone del mondo, la nostra presenza è ai minimi storici. E alcune azioni di politica internazionale vengono rallentate per il mancato sostegno da parte di quei paesi con cui si è chiusa la nostra cooperazione. Bisogna assumersi questo problema: la cooperazione non è solo una questione morale, ma anche politica ed economica.

Negli anni l'Italia ha ridotto le risorse. Come spiegare all'opinione pubblica l'importanza di destinare fondi a questo settore in un momento di ristrettezze economiche? Quali ricadute positive vi sono per l'Italia?

La nostra cooperazione vive – è sotto gli occhi di tutti – un momento di crisi. Una crisi che ha radici lontane. Negli anni Ottanta eravamo attivi in tutta l'Africa e in gran parte dell'America latina, anche in sinergia con le imprese italiane.

Certo, non tutto funzionava per il meglio: era la stagione degli aiuti a pioggia che ha avuto aspetti discutibili e discussi. Ma allora la cooperazione italiana godeva di legittimità politica e di bilancio.

Dalla metà degli anni Novanta l'aiuto pubblico allo sviluppo è diminuito. Sono più di quindici anni che gli aiuti in rapporto al Pil superano a fatica lo 0,2 per cento, contro una media dei partner europei pari allo 0,38-0,4 per cento. Nel 2010 abbiamo raggiunto un minimo storico (2,3 miliardi di euro) finendo al penultimo posto nella classifica dei paesi donatori. Per il2012, alegislazione vigente, le previsioni sono di un ulteriore pesante ribasso: soltanto lo 0,12 per cento. E il deficit non è solo quello delle risorse, ma anche quello delle idee. C'è bisogno di una visione strategica di lungo periodo. Per quanto riguarda il consenso, si sostiene spesso che l'opinione pubblica italiana non sia favorevole all'aiuto allo sviluppo, come ad esempio accade in Gran Bretagna.

In realtà, è vero il contrario. Secondo i risultati del sondaggio dell'Eurobarometro (fine 2011), il 64 per cento degli italiani è favorevole ad aumentare la quantità degli aiuti, e addirittura il 22 per cento vorrebbe andare oltre le promesse.

Quali sono invece i benefici per i paesi che ricevono gli aiuti? Sono solo di tipo economico o vi sono altre opportunità?

Ho parlato prima di deficit di idee, perché sono convinto che si debba considerare il capitolo cooperazione in un modo nuovo. Infatti, attraverso di essa si può dare un contributo alla stabilizzazione di tanti paesi, perché spesso sviluppo e democrazia vanno insieme.

Poi ci sono altre forme di cooperazione innovativa, di cui sarebbe opportuno cogliere la portata. Penso ai sistemi giudiziari, ai sistemi di protezione civile, di lotta alla criminalità e alle tossicodipendenze, alla salvaguardia dell'ambiente.

L'Europa è sempre più un polo di attrazione per i popoli dell'Africa e del vicino Oriente, ma ogni Stato sembra affrontare la questione per conto proprio. Condivide tale ipotesi?

Per anni la politica europea si è dibattuta tra la mancanza di interlocutori democratici sulla sponda Sud del Mediterraneo e gli effetti nefasti dell'esportazione della democrazia con le bombe. Ne risultavano scelte spesso ambigue, legate a un miope interesse nazionale e, talvolta, anche in competizione tra loro.

Mi sembra che l'Europa sia matura per affrontare una politica unitaria. Altrimenti non si va da nessuna parte. Nei miei recenti incontri a Bruxelles con i Commissari Viviane Reding e Cecilia Malmstrom ho riscontrato una grande sintonia e una comunanza di valori e principi ma, soprattutto, la disponibilità a mettere in campo risorse e aiuti per l'immigrazione e l'integrazione, da condividere in un'ottica di partenariato con i paesi africani e mediorientali.

Gli immigrati rappresentano una fetta considerevole della popolazione italiana. Qual è il loro apporto all'economia e alla cultura del nostro paese?

Gli immigrati non vanno visti più soltanto come una minaccia, ma anche come una grande opportunità. La popolazione italiana in questi ultimi tempi è cresciuta solo grazie all'apporto dei figli degli immigrati. Senza di essi, il paese sarebbe condannato al declino demografico, che è sinonimo di declino economico. Guardiamo altri dati: il 70 per cento dei lavoratori stranieri nel nostro paese ha aperto un conto in una banca italiana. Tre milioni e trecentomila persone hanno presentano regolare dichiarazione dei redditi, pagano le tasse e la previdenza. Ma c'è un fatto che tutti noi sperimentiamo quotidianamente: ovvero quanto sia importante per i nostri figli, per i nostri anziani, per le nostre famiglie l'apporto di babysitter, badanti, collaboratori domestici provenienti da tutti gli angoli della Terra. A livello più generale, occorre ricordare che le migrazioni sono fenomeni storici. Non si può guardare a esse con visione angusta. Quello che si può fare è lavorare affinché nel nostro paese si creino occasioni di integrazione, di dialogo, di conoscenza e di rispetto reciproco con e tra le diverse comunità presenti. Se non cominciamo a lavorare fin da ora per una vera convivenza, il futuro potrebbe riservarci delle sorprese sgradite.

Tag: , , , ,