31/01/2016 Don Santoro, un prete di Roma in Oriente

Non un politico, e nemmeno un professore...

di Andrea Riccardi

Fonte: Avvenire

Perché tanta attenzione attorno ad Andrea Santoro? Attorno a un prete? In fondo il nostro mondo dimentica rapidamente anche le storie più tragiche, in pochi giorni, pure dopo intense commozioni. Una società senza storia (e non è forse logorato oggi l’uso della storia?) vive un’identità emozionale e cangiante, senza memoria. La storia di Andrea Santoro si lega a quella di Hrant Dirk, giornalista armeno ucciso a Istanbul nel 2007 (un nipote di sopravvissuti ai massacri dei cristiani durante la prima guerra mondiale) e a quella di monsignor Luigi Padovese, vescovo cattolico in Turchia, assassinato cinque anni dopo don Andrea, nel 2010. Siamo ormai dopo il tempo dell’emozione. Perché tanta attenzione a un prete? I preti non sembrano fare notizia, quando fanno il loro dovere. I preti appartengono a una categoria che, tra gli anni Sessanta e Settanta, è stata sottoposta non solo alla consueta carica di anticlericalismo, ma a una vera erosione. Una razza in estinzione: titolava una pubblicazione del dissenso che guardava a una Chiesa senza casta sacerdotale, come si diceva. Sono critiche sentite molto da una generazione, quella di Santoro, nato nel 1945, entrato in seminario minore negli anni Cinquanta e uscito dal maggiore nel 1970 (che negli ultimi anni cambia tre rettori: segno dei tempi caldi). È una generazione di seminaristi e di preti che conosce crisi e abbandoni in modo molto intenso, tanto è forte la pressione, il gusto di novità, la frattura profonda in cui s`è formata. Bisogna considerare questo dato nella storia di don Andrea: i preti della sua età sono pochi. Il cardinale Poletti, una figura che emerge da questo libro, morto quasi venti anni fa, era sempre in affanno proprio sulla mancanza dei preti. Don Andrea è un uomo che conosce stagioni di effervescente impegno, mai conformista, come emerge dalle pagine di Augusto D`Angelo: belle, da vero storico, anche quelle dedicate al ministero parrocchiale alla Trasfigurazione, a Verderocca, ai Santi Fabiano e Venanzio. Ma lui è e resta prete: prete, prete… – diceva con Giuseppe De Luca, storico, erudito e prete romano. Perché questo libro è la storia di un prete, non di un operatore sociale o di dialogo, non di un intellettuale. Non un politico, non un uomo di cultura (don Andrea è sensibile e informato, ma non è un professore); bensì un prete, cioè qualcuno che vive la fede, la comunica e la celebra. Ma così, un uomo può essere incisivo nella vicenda umana e molto. Questo è un fatto – a ben vedere – un po’ scandaloso. Invece generazioni di preti, anonimi, hanno fatto la storia della nostra società, tra le parrocchie e gli angoli dove vivevano: fra obbedienza e creatività. Questa storia non è finita ma continua, come si vede da questa storia di don Andrea, piena di obbedienza e creatività (perché tale è la dinamica della vita della Chiesa). Il cardinale Ruini, che ha conosciuto bene Santoro dagli anni Novanta, nell’omelia ai funerali ha rilevato finemente l’inquietudine di don Andrea: non un’inquietudine immatura, ma quella di un uomo serio, abituato a fare le cose in prima persona prima di dirle agli altri, che non si accontenta innanzitutto di sé. Il cardinale Ruini dà il permesso a don Andrea di andare in Turchia, anche perché lui ci vuole andare da prete di Roma. Cosa rappresenta la Turchia? La Turchia è la terra degli altri: paese mu sulmano, repubblica laica, regione di antiche memorie cristiane, apostoliche, prima sede dell’ortodossia, il patriarcato ecumenico, ma anche patria degli armeni (che nel Novecento hanno conosciuto il primo genocidio della storia), e di quei poveri cristiani di montagna, del Tur Abdin, la montagna dei servitori di Dio, che sono i siriaci. I frammenti cristiani del passato appena si percepiscono nel paesaggio turco: rovine, chiese cintate o trasformate in altro. La Turchia moderna sembra altrove. La Turchia non è terra di missione, ma terra del tramonto del cristianesimo, degli ultimi giorni di antiche comunità. Eppure – per una generazione come quella di don Andrea – quella terra è salita alla ribalta con la visita di Paolo VI ad Atenagora e con l’incontro del Papa con il Patriarca a Gerusalemme. Poi, nel 1979, Giovanni Paolo II l’ha visitata nonostante le preoccupazioni per la sua vita e le dichiarazioni aggressive del suo futuro attentatore sulla stampa turca. Questi eventi hanno rivelato che, sotto la polvere della Turchia, c’è tanto: storia, memoria, santità e forse futuro. La Turchia è l’alterità alle frontiere di casa nostra, legata da antichi e un po’ logori fili al nostro mondo e al cristianesimo. C’è un fascino, un`attrazione, di quel paese, esercitata sui cuori e le menti dei cristiani.

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