27/06/2012 Vigilare contro la cultura del disprezzo

di gigasweb

Fonte: 150+ Maggio-Giugno 2012

«A ogni individuo spettano tutti i diritti e tutte le libertà enunciati nella costituzione e nella dichiarazione universale dei diritti dell'uomo»

Andrea Riccardi è il Ministro per la Cooperazione Internazionale e l'Integrazione del governo Monti. Professore di storia contemporanea all'Università di Bari, alla Sapienza e all'Università di Roma Tre, premio Unesco per la pace e fratellanza tra i popoli, è il fondatore della Comunità di Sant'Egidio, da sempre impegnata nella lotta alla povertà e nell'inclusione sociale.Ministro Riccardi, chi sono oggi le vittime di atteggiamenti discriminatori e razzisti in Italia?

Sicuramente i migranti, gli stranieri e i rom in una dimensione spesso sottovalutata, sono vittime di atteggiamenti di intolleranza, di discriminazione, di violenza. Nonché la comunità ebraica, sempre oggetto di attacchi inaccettabili, dalle scritte sui muri, ai siti web antisemiti. Abbiamo il dovere di garantire e proteggere in primis la sicurezza di questi soggetti. Ma credo pure che la società italiana nel suo insieme rischi di diventare, anch'essa, vittima di gesti o parole del genere. Bisogna sempre vigilare contro quella che definisco la "cultura" del disprezzo, perché in tali circostanze viene compromessa la possibilità che la nostra società sia aperta, pacifica, integrata.

Che cosa è possibile fare per contrastare le discriminazioni?

C'è una responsabilità dell'azione di governo, e delle forze politiche. A ogni individuo spettano tutti i diritti e tutte le libertà enunciati nella Costituzione e nella Dichiarazione Universale dei Diritti dell'Uomo, senza distinzione alcuna. Sono questi i principi fondamentali che costituiscono la base di ogni democrazia, di ogni stato di diritto. L'azione di governo – oggi e nel futuro, qualunque maggioranza la sostenga – è chiamata a salvaguardare e a riaffermare queste acquisizioni. E dunque ad impedire e a sanzionare, a garantire e a tutelare, a favorire e ad incoraggiare, dando vita a una rete di riferimento non soltanto normativa, ma pure propositiva, perché ogni manifestazione di disprezzo, di discriminazione, di razzismo, sia isolata, ridotta, ed infine eliminata. E poi c'è una responsabilità dell'intero corpo sociale. Una società che si facesse conquistare dal fascino di parole d'ordine semplificatrici ma illusorie, sarebbe meno libera, meno democratica e senza prospettive. Il benessere, la dignità, il riscatto di ognuno di noi sono strettamente legati a quelli di coloro che ci vivono accanto, chiunque essi siano.

Quant' è importante la Sua esperienza sul campo, a Sant'Egidio, per poter rispondere ora dall'interno delle istituzioni al disagio delle categorie più vulnerabili e allo stigma nei loro confronti? Ce la può raccontare?

Nell'esperienza di Sant'Egidio la fede si fa anche cultura. Cultura della vita, promozione umana. E cambiamento di contesti bloccati. In tutto il mondo le nostre "Scuole della pace" guardano con affetto alla vita dei più piccoli in ambiti in cui il minore non ha quasi rilievo. Lo stesso può dirsi a proposito degli anziani, del lavoro che la Comunità porta avanti per vincere la loro solitudine, per proporre alternative all'istituzionalizzazione. E potrei continuare citando l'impegno per gli immigrati con le scuole d'italiano e la formazione dei mediatori culturali. E poi il grande amore per l'Africa, gli sforzi per la pace, i tanti progetti, Dream, un programma di cura gratuita per decine di migliaia di malati di Aids in dieci paesi subsahariani

…. Insomma, tutto questo bene si lega con la titolatura del dicastero che dirigo, con la cooperazione, con l'integrazione, con la delega alle politiche familiari, etc. Certo, non è che guardare le cose dal punto di vista delle istituzioni renda tutto più semplice, più fattibile. Anzi, c'è da fare i conti con la mancanza di fondi, con l'esigenza di armonizzare politiche, scelte, problematiche concrete.

Negli ultimi tempi gli italiani hanno imparato a considerare gli immigrati come una risorsa, un'opportunità per l'economia e per la famiglia. Qual è il loro contributo sociale, culturale, economico?

Penso che sempre più, negli ultimi tempi, si stia riuscendo ad andare oltre le generalizzazioni, i luoghi comuni. Perché il razzismo, la xenofobia, la discriminazione, la contrapposizione, si nutrono di luoghi comuni. Ma lo stereotipo non è la verità. Mentre la realtà è quella che sempre più italiani imparano a riconoscere, a sperimentare. Una realtà fatta, certo, di qualche difficoltà, ma anche di un grande sostegno al bene comune, al bene nazionale – e al bene individuale e familiare di tanti – che passa attraverso il contributo degli immigrati, attraverso la loro "scommessa" sull'Italia. Lo riconoscono sempre più famiglie italiane, che, per alleggerire la vita dei loro componenti più deboli – gli anziani, i bambini, i portatori di handicap – si affidano a chi viene dall'Europa dell'Est. Lo riconoscono sempre più imprenditori e artigiani italiani, che portano avanti la loro attività in un tempo difficile con chi viene dall'Africa. Lo riconoscono gli economisti e anche l'Inps che dichiara esplicitamente che senza i contributi versati da milioni di stranieri i suoi bilanci sarebbero compromessi. Parliamo di una realtà di supporto e di sviluppo che è in crescita e che lo sarà sempre di più.

Le cronache purtroppo continuano a registrare, seppur sporadicamente, episodi di intolleranza nei confronti degli immigrati. Si tratta di fenomeni isolati oppure esiste un pregiudizio xenofobo in Italia?

C'è un atteggiamento xenofobo che, quando non è contrastato, si fa strada, in particolare tra i più giovani. La sfida è educativa, formativa, comunicativa. Gli italiani non sono razzisti. Ma ci sono segnali che non vanno sottovalutati e che soprattutto vanno contrastati. Credo che il problema sia agire su più livelli. Responsabilizzare le comunità immigrate, e i rom. Responsabilizzare i media rispetto al linguaggio che usano. Favorire i mille percorsi educativi presenti nelle scuole italiane. Favorire i processi di incontro con l'altro. E parlare. Per condannare, certo, quando ci sono reati; ma anche per spiegare, per informare, per avvicinare.

In questo scenario di crisi economica è ancora più complesso costruire percorsi di integrazione sociale. Quale modello immagina per il nostro Paese?

La società italiana, per l'acutizzarsi della crisi economica, per l'atomizzazione degli individui, per lo spaesamento di tanti, per l'insufficienza di un investimento culturale di largo respiro, è percorsa da troppe pulsioni divisive. In questo tempo più solo e più difficile si è tanto maggiormente risentiti e irritati, tanto più spesso alla ricerca di nuovi e vecchi capri espiatori. Ma è un'illusione pensare che dalla crisi si esca da soli. O alimentando contrapposizioni e antagonismi. Dalla crisi si esce insieme. Non c'è solo un problema di risorse economiche da reperire per favorire politiche di integrazione – problema che pure esiste e che va in qualche modo messo sul tavolo – ma c'è anche un problema di scelte culturali, di messaggi che si mandano. Il modello che immagino per il nostro Paese è un modello "inclusivo", è un fare sistema tutti insieme. Perché sempre le costruzioni che uniscono le forze, le visioni, che mettono in sinergia interessi e prospettive differenti, sono le più solide e le più capaci di resistere alle tempeste della vita e della storia.

In questo contesto come vede il ruolo della Croce Rossa Italiana?

Il ruolo della Croce Rossa Italiana è prezioso proprio in una tale prospettiva. Un'istituzione che unisce, che guarda alla complessità del mondo – del mondo di casa nostra e di quello globale – con una visione aperta e solidale, ecco un segno importante per la società in cui viviamo e ancor più per quella in cui vivremo nel futuro.

Lei è stato insignito del Premio Carlo Magno, un prestigioso riconoscimento attribuito a persone e istituzioni che si sono particolarmente distinte nella promozione di un'Europa unita e nella diffusione di una cultura di pace e di dialogo. In questa ottica come vede il futuro dell'Europa?

Il futuro dell'Europa lo decideremo noi europei. E scelte chiuse, meschine, prive di visione, potrebbero anche condurre a un'Europa irrilevante, fuori dalla storia, avulsa dal respiro del nostro tempo globale. Da parte mia credo che l'Europa non possa vivere per se stessa. Il mondo ha bisogno dell'Europa, del suo umanesimo, della sua forza ragionevole, della sua capacità di mediazione e di dialogo, delle sue risorse, della sua cultura. Schumann, padre fondatore dell'Europa, scriveva: «L'Europa unita prefigura la solidarietà universale del futuro». L'Europa nel mondo è un segno di pace. L'Europa, una e molteplice, realizza la civiltà del convivere. È la civiltà che tante volte manca a un mondo che reagisce con gli scontri di civiltà e di religione; che manca a un'economia disumana, senza quel quid che viene dall'umanesimo di tradizione europea.