02/10/2015 Si può ancora scendere in piazza per la pace? Dire no al silenzio di fronte alla guerra in Siria

di Andrea Riccardi

Fonte: Corriere della Sera - SETTE

Viene da chiedersi come mai oggi ci siano silenzio e rassegnazione di fronte alla guerra in Siria, che ha fatto più di 200.000 morti e quasi 10 milioni di sfollati.

In molti ricordiamo le grandi manifestazioni di pace del 2003 contro l’intervento americano in Iraq. Viene da chiedersi come mai oggi ci siano silenzio e rassegnazione di fronte alla terribile guerra in Siria, che ha fatto più di 200.000 morti, più di 4 milioni di rifugiati all’estero, quasi 10 milioni di sfollati, a fronte di una popolazione siriana di 22 milioni. I rifugiati bussano ogni giorno alle porte degli europei. Sono i testimoni di un immane disastro in corso. Perché siamo come impotenti di fronte alla guerra in Siria? Che cosa è successo? Nel 2003, non scesero in piazza solo i pacifisti, ma quanti ritenevano che fare la guerra fosse un grave errore. Non solo la sinistra, tanto che il presidente francese Chirac fu uno dei riferimenti dell’opposizione all’avventura militare. In questo quadro, Giovanni Paolo II, ormai anziano e malato, fu il leader morale del variopinto movimento per la pace, delegittimando il carattere di guerra di religione e civiltà, che si intendeva dare allo scontro. In quelle manifestazioni confluirono, con i pacifisti, tanti europei convinti che la guerra fosse un estremo ricorso e non un’arma da usare avventatamente. Il movimento della pace però fu sconfitto. La guerra ci fu, con la fine di Saddam Hussein (che nessuno rimpiange) e la distruzione dell’Iraq, ancora oggi in gravissima crisi. Forse quella sconfitta segnò la crisi del movimento pacifista. Dopo le manifestazioni del 2003, il discorso sulla pace è cambiato. In parte si è tramutato in quello sulla giustizia internazionale alla luce del principio “non c’è pace senza giustizia”. Nel 2002 è entrata in vigore la Corte penale internazionale, dopo il Tribunale speciale per i crimini nella ex Jugoslavia nel 1993 e in Rwanda nel 1994. La comunità internazionale è più attenta alle tematiche della giustizia, all’intervento o all’ingerenza umanitaria con l’uso legittimo della forza. Il linguaggio è cambiato anche nelle associazioni, movimenti, ong. Il diritto di proteggere ha motivato vari interventi militari di Stati. Quello in Libia fu spiegato con la protezione della Primavera araba che Gheddafi massacrava.
IL CORAGGIO DELLA COMPLESSITÀ. Non c`è solo questo cambiamento. Si è anche perduta la convinzione (forse ingenua ma diffusa) che esprimere una domanda di pace servisse a qualcosa. Nel 2003, si chiedeva di non fare la guerra agli Stati Uniti, una grande democrazia (per quanto fosse avversata), il cui presidente era noto e la cui politica era aperta al dibattito. Oggi – proprio in Siria – la situazione è ingarbugliata e gli attori in lotta sono tanti. Su chi fare pressioni? In realtà è la tipica situazione complessa del mondo globale, in cui non è facile orientarsi anche per un’opinione pubblica informata. Ci si scoraggia e ci si ritira. Bisogna invece avere il coraggio di affrontare la complessità. Anche perché – ne sono convinto – il dialogo tra Stati Uniti e Russia avrebbe potuto evitare il deterioramento della situazione. Ed oggi può ancora segnare una svolta. Gli europei hanno il diritto di chiedere questo. E possono ancora scendere in piazza per la pace.

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